L’unica via di fuga possibile per 3 persone appiedate,
con pochi armamenti e con tutti i cadaveri ambulanti in giro per le strade, era
la metro. Da Montesanto, ci sono solo due fermate per arrivare alla Stazione
Centrale, a Piazza Garibaldi, e da lì salire sull’autostrada. L’unico modo
plausibile per ridurre al minimo gli incontri spiacevoli. Non dico che sulla
carta fosse una buona idea, ma ci era sembrato l’unico modo per spostarci senza
dover camminare allegramente in quell’agglomerato urbano esteso per chilometri
che è l’hinterland napoletano, brulicante di persone a metà tra la vita e la
morte che non chiedono altro che smangiucchiarti un pochino. Con un po’ di
fortuna avremmo anche potuto trovare un’auto... solo che ora come ora siamo
nella merda. Per uscire di casa abbiamo lanciato un vecchio mangianastri che
abbiamo trovato nel rifugio, con dentro una cassetta di Madonna (erano secoli
che non ne vedevo una) nella direzione opposta a quella dove dovevamo correre.
I gemiti della bionda erano riusciti quantomeno a distrarre i Vagabondi, e
dando qualche mazzata qua e là, siamo riusciti a scendere nella metro. Di
solito nella metropolitana di Napoli sono poche le sensazioni che provi: mentre
scendi, hai i brividi per il vento, quando arrivi ai binari fa caldissimo, e
c’è sempre un odore non molto piacevole. Ora la metro puzza di gente morta, di
decomposizione, e di bruciato. Di carne bruciata. Fa veramente schifo, mi sono
legato un pezzo di stoffa davanti la bocca, ma serve a poco.
Tutto questo succedeva una settimana fa, credo.
Qua sotto deve essere stata davvero brutta. Ci sono
corpi ovunque, a partire dalle scale, ma di Vagabondi ce ne sono davvero pochi.
Tutti gli altri devono essere stati attirati all’esterno nei giorni di
disordine, paura e morte.
Quando siamo arrivati alla banchina della metro di
Montesanto, e penso di poterlo dire anche per i miei compagni, c’è stato un
attimo di incredulità. I resti di due (credo, ma non sono sicuro) convogli
giacevano nelle posizioni più disparate sui binari e sulle banchine. Corpi in
putrefazione sbattuti qua e là, odore di plastica e metallo bruciati. Abbiamo
acceso solo una delle due torce che siamo riusciti a far funzionare, ma abbiamo
portato stracci da avvolgere attorno a mazze di legno e a cui dare fuoco, per
avere luce nel caso si scaricassero le batterie prima di uscire da questo
budello maleodorante e inospitale.
Dalla galleria alla nostra sinistra all’improvviso è
spuntato un gruppo di quattro o cinque non morti, sbraitando e trascinandosi
verso di noi. Ci siamo lanciati verso un vagone, messo di traverso sui binari,
sdraiato su un fianco. Con un po’ di difficoltà, a causa anche dei pesanti
zaini che portavamo sulle spalle, ci siamo arrampicati sulle ruote e gli
ingranaggi, fino a raggiungere la fiancata, con le porte aperte verso il tetto
della galleria. Lì non ci avrebbero raggiunti. Mi sono fermato a guardarli, con
un misto di odio, paura ma in qualche strana maniera anche interesse. Erano in
cinque, due maschi e tre femmine, tutti tra i 25 e i 30, a quanto si vedeva.
Urlavano e sbraitavano in modo terribile, soprattutto quando gli si puntava
contro il fascio luminoso. La loro espressione era terrificante, come i gemiti
che lanciavano, ma nei loro occhi iniettati di sangue non c’era odio. Non so
come spiegarlo... il loro sguardo non sembra quello di spietati assassini, ma
somiglia più a quello di lupi o leoni in una battuta di caccia. E noi siamo le
prede, fuggiamo alla cieca come le mandrie di bisonti nelle pianure africane.
Il più grosso di loro era un ragazzo dai capelli ricci
e scuri, incollati alla testa dal sangue rappreso. Era davvero enorme, alto
circa due metri, con un torace grosso come una botte. Aveva indosso i resti di
una t-shirt, che gli coprivano solo una delle due enormi spalle, ma su cui
campeggiava ancora la scritta “300” in rosso. Sulla spalla destra giù fino al
petto, lasciata scoperta dai brandelli della maglia, aveva i segni di molti
morsi, profondi e sanguinolenti, che devono avergli in qualche modo reciso dei
tendini, dato che quel braccio pendeva immobile e completamente morto. Dallo
stesso lato i capelli gli erano stati strappati via, e l’orecchio era ridotto a
una poltiglia rossastra. L’altro ragazzo era più basso e mingherlino, folti
capelli ricci e neri, come il pizzetto. Non mostrava grosse ferite a prima
vista, a parte qualche buco di proiettile nel petto, ma quando si girava si
potevano vedere brutte e normalmente mortali lesioni su tutta la schiena, così
profonde da mostrare la colonna vertebrale e le costole. Un liquido denso e
giallastro scorreva da quegli squarci, fermandosi sul jeans sudicio e consunto.
Poi ho guardato le tre ragazze. C’erano
due ricce, molto carine; una somigliava tremendamente al tizio con la schiena a
pezzi, tanto che avrebbero potuto tranquillamente essere fratello e sorella; l’altra,
doveva essere sulla trentina, urlava come un’ossessa e tendeva verso di noi
solo una delle due mani, dato che il braccio sinistro gli era stato tranciato
all’altezza della spalla. L’ultima era stranamente calma, ci guardava ma non si
agitava come gli altri... quantomeno non gridava. Era magra e alta, con lunghi
capelli che un tempo dovevano essere stati lisci come spaghetti. Tutta la parte
destra del corpo era orribilmente sfigurata, bruciata di netto. Si poteva
vedere nitidissima la linea di confine tra la metà bruciata e quella sana, e in
quella linea i vestiti che indossava si erano fusi con la carne.
La loro frustrazione nel vedermi in piedi a pochi
centimetri dalle loro mani ossute doveva essere veramente tanta, e la
esprimevano con un coro di grida strazianti. Non riuscivano a capire che gli
sarebbe bastato arrampicarsi solo un pochino e noi non avremmo avuto scampo. Presi
una delle latte di benzina per accendini, che ci portavamo dietro da quando
siamo fuggiti dal Castello e che usavamo per impregnare gli stracci da usare
come torce, la aprii e ne versai il contenuto sulle loro facce. Poi accesi un
fiammifero e gli diedi fuoco. Le fiamme divamparono alte, alimentate non solo dal
liquido, ma soprattutto dai gas prodotti dalla decomposizione. Subito l’aria si
riempì dell’odore di carne bruciata, mentre i cinque ex-esseri umani sotto di
me esalavano l’ultimo respiro, per la seconda volta.