domenica

12 Febbraio 2012


L’unica via di fuga possibile per 3 persone appiedate, con pochi armamenti e con tutti i cadaveri ambulanti in giro per le strade, era la metro. Da Montesanto, ci sono solo due fermate per arrivare alla Stazione Centrale, a Piazza Garibaldi, e da lì salire sull’autostrada. L’unico modo plausibile per ridurre al minimo gli incontri spiacevoli. Non dico che sulla carta fosse una buona idea, ma ci era sembrato l’unico modo per spostarci senza dover camminare allegramente in quell’agglomerato urbano esteso per chilometri che è l’hinterland napoletano, brulicante di persone a metà tra la vita e la morte che non chiedono altro che smangiucchiarti un pochino. Con un po’ di fortuna avremmo anche potuto trovare un’auto... solo che ora come ora siamo nella merda. Per uscire di casa abbiamo lanciato un vecchio mangianastri che abbiamo trovato nel rifugio, con dentro una cassetta di Madonna (erano secoli che non ne vedevo una) nella direzione opposta a quella dove dovevamo correre. I gemiti della bionda erano riusciti quantomeno a distrarre i Vagabondi, e dando qualche mazzata qua e là, siamo riusciti a scendere nella metro. Di solito nella metropolitana di Napoli sono poche le sensazioni che provi: mentre scendi, hai i brividi per il vento, quando arrivi ai binari fa caldissimo, e c’è sempre un odore non molto piacevole. Ora la metro puzza di gente morta, di decomposizione, e di bruciato. Di carne bruciata. Fa veramente schifo, mi sono legato un pezzo di stoffa davanti la bocca, ma serve a poco.
Tutto questo succedeva una settimana fa, credo.

Qua sotto deve essere stata davvero brutta. Ci sono corpi ovunque, a partire dalle scale, ma di Vagabondi ce ne sono davvero pochi. Tutti gli altri devono essere stati attirati all’esterno nei giorni di disordine, paura e morte.

Quando siamo arrivati alla banchina della metro di Montesanto, e penso di poterlo dire anche per i miei compagni, c’è stato un attimo di incredulità. I resti di due (credo, ma non sono sicuro) convogli giacevano nelle posizioni più disparate sui binari e sulle banchine. Corpi in putrefazione sbattuti qua e là, odore di plastica e metallo bruciati. Abbiamo acceso solo una delle due torce che siamo riusciti a far funzionare, ma abbiamo portato stracci da avvolgere attorno a mazze di legno e a cui dare fuoco, per avere luce nel caso si scaricassero le batterie prima di uscire da questo budello maleodorante e inospitale.

Dalla galleria alla nostra sinistra all’improvviso è spuntato un gruppo di quattro o cinque non morti, sbraitando e trascinandosi verso di noi. Ci siamo lanciati verso un vagone, messo di traverso sui binari, sdraiato su un fianco. Con un po’ di difficoltà, a causa anche dei pesanti zaini che portavamo sulle spalle, ci siamo arrampicati sulle ruote e gli ingranaggi, fino a raggiungere la fiancata, con le porte aperte verso il tetto della galleria. Lì non ci avrebbero raggiunti. Mi sono fermato a guardarli, con un misto di odio, paura ma in qualche strana maniera anche interesse. Erano in cinque, due maschi e tre femmine, tutti tra i 25 e i 30, a quanto si vedeva. Urlavano e sbraitavano in modo terribile, soprattutto quando gli si puntava contro il fascio luminoso. La loro espressione era terrificante, come i gemiti che lanciavano, ma nei loro occhi iniettati di sangue non c’era odio. Non so come spiegarlo... il loro sguardo non sembra quello di spietati assassini, ma somiglia più a quello di lupi o leoni in una battuta di caccia. E noi siamo le prede, fuggiamo alla cieca come le mandrie di bisonti nelle pianure africane.
Il più grosso di loro era un ragazzo dai capelli ricci e scuri, incollati alla testa dal sangue rappreso. Era davvero enorme, alto circa due metri, con un torace grosso come una botte. Aveva indosso i resti di una t-shirt, che gli coprivano solo una delle due enormi spalle, ma su cui campeggiava ancora la scritta “300” in rosso. Sulla spalla destra giù fino al petto, lasciata scoperta dai brandelli della maglia, aveva i segni di molti morsi, profondi e sanguinolenti, che devono avergli in qualche modo reciso dei tendini, dato che quel braccio pendeva immobile e completamente morto. Dallo stesso lato i capelli gli erano stati strappati via, e l’orecchio era ridotto a una poltiglia rossastra. L’altro ragazzo era più basso e mingherlino, folti capelli ricci e neri, come il pizzetto. Non mostrava grosse ferite a prima vista, a parte qualche buco di proiettile nel petto, ma quando si girava si potevano vedere brutte e normalmente mortali lesioni su tutta la schiena, così profonde da mostrare la colonna vertebrale e le costole. Un liquido denso e giallastro scorreva da quegli squarci, fermandosi sul jeans sudicio e consunto.  Poi ho guardato le tre ragazze. C’erano due ricce, molto carine; una somigliava tremendamente al tizio con la schiena a pezzi, tanto che avrebbero potuto tranquillamente essere fratello e sorella; l’altra, doveva essere sulla trentina, urlava come un’ossessa e tendeva verso di noi solo una delle due mani, dato che il braccio sinistro gli era stato tranciato all’altezza della spalla. L’ultima era stranamente calma, ci guardava ma non si agitava come gli altri... quantomeno non gridava. Era magra e alta, con lunghi capelli che un tempo dovevano essere stati lisci come spaghetti. Tutta la parte destra del corpo era orribilmente sfigurata, bruciata di netto. Si poteva vedere nitidissima la linea di confine tra la metà bruciata e quella sana, e in quella linea i vestiti che indossava si erano fusi con la carne.

La loro frustrazione nel vedermi in piedi a pochi centimetri dalle loro mani ossute doveva essere veramente tanta, e la esprimevano con un coro di grida strazianti. Non riuscivano a capire che gli sarebbe bastato arrampicarsi solo un pochino e noi non avremmo avuto scampo. Presi una delle latte di benzina per accendini, che ci portavamo dietro da quando siamo fuggiti dal Castello e che usavamo per impregnare gli stracci da usare come torce, la aprii e ne versai il contenuto sulle loro facce. Poi accesi un fiammifero e gli diedi fuoco. Le fiamme divamparono alte, alimentate non solo dal liquido, ma soprattutto dai gas prodotti dalla decomposizione. Subito l’aria si riempì dell’odore di carne bruciata, mentre i cinque ex-esseri umani sotto di me esalavano l’ultimo respiro, per la seconda volta.